Il cortocircuito del senso
In un angolo vivace del centro di Varese, sei vetrine trasformano il paesaggio urbano in un enigma visivo, una provocazione poetica che sfida la percezione e la cultura visiva comune. L’installazione, firmata da Carlo Buzzi, si presenta come una galleria a cielo aperto, dove arte, ironia e filosofia si mescolano in un gioco di libere associazioni, evocazioni inattese e cortocircuiti semantici.
Ogni vetrina è un’affermazione paradossale: Mondrian si reincarna in un pollo; Van Gogh prende la forma di una grattugia; Picasso diventa uno scopino da bagno. Non c’è dileggio né blasfemia in queste combinazioni, ma un gesto di rovesciamento: l’alto e il basso, l’icona e l’oggetto quotidiano, il genio e il banale si fondono in una riflessione sul consumo dell’immagine e sulla mitologia dell’arte.
Queste “equazioni visive” non sono da decifrare con un’unica chiave, ma da attraversare con lo sguardo curioso e critico. Sono l’eredità dadaista, il retrogusto pop e una vena concettuale che destabilizza la reverenza museale: l’arte, qui, esce dalla cornice e scivola nel vissuto.
Il QR-code collocato in una delle vetrine conduce lo spettatore a un’altra dimensione, apparentemente lontana eppure coerente: la pagina Wikipedia di Gorgia da Lentini, il sofista greco per cui nulla esiste, o se anche esistesse non sarebbe conoscibile, e se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. È il cuore filosofico dell’installazione: un invito a dubitare della stabilità del significato, a riflettere sull’impossibilità della verità assoluta nelle immagini e nelle parole.
A chiudere il percorso, l’artista stesso si mostra in veste di frate, in una posa che richiama esplicitamente Padre Pio. È un atto di mimesi e travestimento, ma anche un autoritratto ironico e critico: Buzzi si pone come “santo laico”, officiando il rito dell’ambiguità, testimone di un’arte che non pretende risposte ma solleva domande.
L’installazione ospitata nello spazio Showcases Gallery è dunque più di una semplice esposizione: è un intervento sul linguaggio, un sabotaggio del prevedibile, un’operazione che mette in scena la crisi del senso come possibilità liberatoria. L’arte non insegna, non consola, non rassicura: semmai disorienta, come un filosofo antico, come un’immagine sbagliata, come una reliquia posticcia. Ed è proprio in questo spaesamento che si apre lo spazio per una visione nuova.